Eccomi, ci sono, sono tornata.
E’ passato molto tempo lo so, e d’altronde a volte occorre tempo per ritrovarsi, ritrovare la voglia di leggere e soprattutto la voglia di scrivere.
Bello tornare e scrivere per se stessi, come se non ci fosse un domani, ma soprattutto senza aspettarsi che nessuno ti legga.
Allora lettori immaginari, ho pensato che nei prossimi giorni avrò voglia di raccontare un po’ di aneddoti di tutti i giorni. Di tutti i miei giorni. Sta per partire la mia nuova rubrica: appunti di una giovane “signorina”: racconti di un medico donna nel 2018.
Per chi non mi conoscesse (cioè tutti) il mio leitmotiv che mi porterà alla tomba è che nessuno mi chiama mai dottoressa. Nel 2018 in Italia, in Toscana, infatti una donna medico è una “signora” o “signorina” non una dottoressa. Per qualche strano motivo, a me questo accade più costantemente che alle colleghe, ma di questo ne parleremo un’altra volta.
Per l’appunto sono smontata da poche ore dalla notte e le notti in ospedale, si sa, sono sempre foriere di mille spunti per qualche riga.
Ieri notte, mentre già la neve aveva imbiancato vialetti e auto parcheggiate all’interno dell’ospedale, mi chiamano dal pronto soccorso per una consulenza. Così mi imbacucco che paio un serial killler candidato al golden globe e vado. Il mio reparto è distante dalla maggior parte delle unità operative e pertanto occorre fare un pezzo all’esterno oppure passare da un tunnel ove ci sono altri colleghi (serial killer intendo) candidati al globe , o potrebbero esserci, o comunque il camminarci di notte diciamo che non viene esattamente consigliato come attività per donne sole.
Insomma arrivo al PS, faccio la mia consulenza e, accanto a me sento la collega cercare qualche psichiatra per un carcerato che aveva ingoiato due pile.
Ho lavorato in carcere appena dopo la specializzazione, come “signorina” ovviamente. Un periodo intenso emotivamente e professionalmente, che mi fece scoprire un’umanità e una realtà che altrimenti non avrei conosciuto facilmente. Una medicina che funziona all’incontrario: non devi ascoltare cosa riferisce il paziente per capire cosa ha, ma se il paziente ha davvero quello che dice di avere; un posto in cui è difficile entrare tanto quanto uscire; un ambiente in cui devi filtrare sempre ogni racconto, ogni emozione e devi lavorare senza sapere chi stai curando perché un medico cura senza giudizi ne pregiudizi. Tutte cose che servono molto più fuori del carcere ma che in carcere hai modo di imparare bene. Insomma i tentati gesti autolesivi in carcere sono comuni e spesso servono solo per protesta o per uscire di lì.
Lo stupore infatti non mi è venuto dal carcerato ma dallo psichiatra. I colleghi psichiatri non smetteranno mai di stupirmi. Vivono in un mondo tutto loro, secondo criteri tutti loro, parlano una lingua loro e si muovono persino in un modo tutto loro. Intuivo dall’andamento della telefonata che lo/la psichiatra continuava a chiedere alla collega del PS se secondo lei era una cosa normale l’ingestione delle pile (cioè un atto da inquadrare in una quasi “abitudine” dei carcerati) o se potesse sembrare uno che voleva davvero suicidarsi. Ci mancava se avesse voluto sapere se le pile erano ricaricabili…Forse chi non è del mestiere non sviene come stavo per fare io di fronte a una domanda del genere ma, ecco, mi verrebbe da dire che ci sarebbe voluto uno psichiatra per rispondere a quella domanda.
Ma d’altronde, che ne so io, sono solo una signorina.
Credo che voi medici, i parroci e i carabinieri potrebbero scrivere l’Odissea dell’umanità per quello che vedono, sentono e a volte toccano persino con mano. Lunga vita a chi sopporta l’umanità (a volte) senza battere ciglio o persino senza fare una strage che a mio parere non dovrebbe essere passibile di giudizio nel penale.
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Mi incuriosisce questa cosa che ti chiamano “signora”! Beh tutti i laureandi hanno aspettato di finire di studiare per sentirsi finalmente chiamare Dottore o Dottoressa o almeno credo. Io ero una di quelle persone e per essere sicura in Italia e all’estero mi sono anche dottorata :-)) Scherzi a parte, quando ho iniziato a lavorare mi sono resa conto che più che il titolo conta quello che sai fare e quando le persone se ne accorgono e iniziano a stimarti iniziano da sole a chiamarti anche semplicemente “la dottoressa”. Io mi presento a tutti con nome e cognome e firmo le e-mail senza nessun titolo perché per me è più importante tutto il resto. Nel mio ambiente lavorativo chi ha titoli meno importanti tende a sbandierarli facendo un gran casino. Io adotto la tecnica contraria, arrivo in sordina e sgancio la bomba. Ti assicuro che l’effetto di quella bomba è molto gratificante.
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